Di sconfitta in sconfitta. Ritratto di un Pd che non c’è più
EDITORIALE DI CALOGERO PUMILIA
Stravince unito, diviso, e perfino con i partiti che lo compongono in contrasto tra di loro. Vince perché, al di là degli accordi locali, talora confusi e contraddittori, trasmette forza. Vince perché è radicato nella società e perché al suo interno è in grado di cogliere a man bassa i candidati, creare aspettative e sollecitare consensi. Vince in una realtà nella quale con le risorse pubbliche si sostenta un notevole numero di cittadini e chi le gestisce proietta, ha sempre proiettato, l’immagine di chi dispensa favori anche quando assicura diritti.
I beneficiari dell’uno e degli altri sono indotti a preservare, a conservare il rapporto con coloro che il beneficio o il diritto assicurano. Quanti sono fuori da queste tutele e fuori da tutto, in una realtà che non ha alternative al “posto” o al sussidio, restano fuori e lontani dalla cabina elettorale. Spesso non coltivano speranze se non quella di trovare posto sotto l’ombrello e quando prendono atto che non ce n’è più non resta loro che andar via. Comunque non hanno voce e, anche se l’avessero, difficilmente troverebbero chi è disposto ad ascoltarlo. Restano lontani anche coloro che non trovano più nei partiti valori e cultura politica.
Il centro-destra, in Italia e in Sicilia, vince per il vento che favorisce Meloni e il suo governo, quel vento che del resto spira in molte parti d’Europa. Vince perché non ha rivali, perché non poteva capitargli una opposizione migliore di quella che ha pescato, che in Sicilia, peraltro, non è neppure pervenuta.
Scomparso già prima di nascere il “grande centro” di Calenda e di Renzi, spente quasi del tutto le Cinque Stelle, irrilevante il Partito democratico, ciò che resta di loro è diviso e confuso. Quest’ultimo, del quale mi ostino ad occuparmi per qualche residuo, faticoso trasporto, dovrebbe essere il punto di riferimento della sinistra e dei riformisti e dovrebbe mettere in campo l’opposizione più efficace alla destra. Dovrebbe capire comunque, da noi in particolare, che il suo potere pressoché totale non si può contrastare né scalfire se non si riesce a dar voce a chi resta fuori da quell’ombrello, se alla forza e al fascino della supremazia non si contrappongono un progetto e una speranza, se non si è capaci di mobilitare il dissenso e la protesta offrendo all’uno e all’altra una prospettiva credibile, un traguardo concreto, se non si riattiva la partecipazione di tanti che, ormai da tempo, rimangono distanti e diffidenti. Capisco che ci sarebbe bisogno di spiegare meglio, per non correre il rischio di una vacua retorica.
Nei tempi lontani, quelli nei quali avevo un ruolo politico, i democristiani il potere lo esercitavamo e lo utilizzavamo anche per ottenere consenso. L’opposizione di sinistra faceva altrettanto dove vinceva le elezioni ma principalmente era capace di intercettare e dare voce a chi era alternativo, a chi aveva una ideologia e una visione diverse dalle nostre. Altri tempi e altre classi dirigenti, si dirà, senza inutili rimpianti. Come si può pensare che una cosa analoga sul versante dell’opposizione, ché per l’esercizio del potere è più facile imitare il passato, avvenga ad iniziativa di un gruppo di sfigati che in Sicilia si è impadronito del Partito democratico, lo ha condotto di sconfitta in sconfitta e ora ha preso quella più solenne, non indovinandone una? Giufà non poteva fare meglio né peggio. Ché per la verità Giufà era un credulone senza malizia, questi sono furbastri capaci di accaparrarsi la cadrega e il resto non è cosa per loro.
Questo gruppo ha pasticciato a Catania, litigato con Bianco decidendo di escluderlo dalla candidatura a sindaco ancor prima che ad impedirglielo intervenisse la legge. Non ha trovato al proprio interno nessuno da proporre e, alla fine, ha scoperto un altro “podestà straniero”, pare un’ottima persona, che ha preso un terzo dei voti dell’eletto e che, ad urne chiuse, per giustificare la sonora sconfitta, con ingenua improvvisazione, ha dichiarato “non ci siamo spiegati”, senza indicare in che lingua hanno parlato ai cittadini lui e il suo partito.
I machiavelli di strapaese in molti centri, pur di governare la cosa pubblica, hanno promosso o accettato alleanze anche con Fratelli d’Italia, senza capire che così tutto risulta pasticciato, si smarrisce identità e perfino decoro, non c’è né linea politica né coerenza ed è difficile che l’elettore di sinistra riconosca in questi minestroni rancidi il proprio partito. Che rimane escluso da tutti i ballottaggi, nei quali si contenderanno la vittoria due gruppi di centro-destra. Quello che, malgrado diviso, per poco non è riuscito a conquistare anche Trapani. Per poco l’impegno forte e determinato del Partito democratico a suo favore, a favore del candidato della destra, non è stato premiato dal successo. Ci si è avvicinato comunque, mettendo in lizza contro il sindaco uscente, democratico, un componente della sua direzione regionale. Il sindaco riconfermato, anche con i voti della Lega, con comprensibile orgoglio e togliendosi anche qualche sassolino dalla scarpa, ha voluto precisare di non “avere né padroni né padrini”.
Con qualche analogia con la realtà di Vicenza, l’unica città capoluogo del Nord nella quale la destra è stata sconfitta da un democratico che ha giocato la sua partita all’insegna del civismo, senza l’emblema del partito e chiedendo ai dirigenti nazionali dello stesso, Schlein compresa, di mantenersi distanti.
La destra stravince, ma che gusto c’è a farlo senza avversari, giocando in un campo con una sola porta, sguarnita peraltro anche del portiere? Dopo la sonora sconfitta, a proposito di campo, una parola che si ripete ormai da tempo e forse porta anche male, Schlein ha dichiarato di volerne costruire uno “alternativo che credibilmente contenda alla destra la vittoria”.
Forse, insieme ad un campo nuovo, occorrerebbero giocatori nuovi e un allenatore con un modulo di gioco chiaro, aperto a tutti coloro che compongono la squadra. In assenza di questo, con un’opposizione frantumata – già oggi Conte e Schlein si beccano proprio come polli, come quelli di Renzo -, lunga vita a Meloni a Roma e a Schifani a Palermo.