PIANO PAESAGGISTICO. INTERVIENE L’ARCHITETTO PAOLO FERRARA: “AVREMMO DOVUTO RIBELLARCI A PARTIRE DA 40 ANNI FA”

Sulla questione realativa al Piano Paesaggistico, ricevimao e volentieri pubblichiamo la lettera che ci ha inviato l’architetto Paolo Ferrara.

Caro Direttore,

essendone tu stato uno dei sostenitori (e, al contempo, voce critica) unitamente ad altri cultori, ricorderai che già quasi cinque anni fa i saccensi furono invitati a confrontarsi con il significato di “paesaggistica” e, nello specifico, di “paesaggistica scorretta”. Il nostro (ricordo gli interventi di Enza Santangelo, Agnese Sinagra, Gianni Borsellino, Salvatore Catanzaro, Mario Di Giovanna, Giuseppe Prinzivalli) fu un momento di riflessione sul da farsi affinché Sciacca potesse avere coscienza dei propri limiti urbatettonici e paesaggistici.

Per rendere chiaro quanto fosse critica la situazione della città e del territorio, invitai il Dr Calogero Alessi ad illustrarci (e lo fece mirabilmente) uno tra i più grandi sprechi culturali e scempi materiali che si sia perpetrato a Sciacca: lo stato delle antiche Mura della città. Certo non fu una novità: poco pubblico e totale assenza -pur se invitati- dei rappresentanti degli apparati amministrativi, che snobbarono il significato del tema di dibattito. Poco male: non si trattava di un invito istituzionale e, soprattutto, era apolitico, dunque era abbastanza scontata la loro assenza.

Molto, molto male se, invece, è stato dagli stessi trascurato il momento di concertazione con la Soprintendenza BBCCAA nella stesura del Piano Paesaggistico, che tanta paura sta mettendo a (quasi) tutti… Questa lunga premessa per dire che piangere oggi sulle conseguenze che avrà l’attuazione del Piano Paesaggistico è alquanto anacronistico perché è a partire da quarant’anni fa che avremmo dovuto avere il coraggio di ribellarci a: 1) all’irrispettoso ed egoistico incedere della crescita urbana e extra urbana costiera, quest’ultima privando Sciacca della potenzialità di un vero lungomare fruibile ed elemento imprescindibile della nostra “paesaggistica”; 2) all’assoluta mancanza di controllo nella pianificazione delle zone edificabili lasciate in mano ai burattini dei burattinai democristiani anni ’70 e ’80, riconoscendo che anche noi abbiamo avuto i nostri Vito Ciancimino di turno che con la speculazione edilizia si sono arricchiti (e hanno fatto arricchire) a danno del paesaggio. Insomma, se attraverso il placet di chi lo decideva “politicamente” non fossimo stati abituati a fare del paesaggio tutto ciò che ci pareva; se avessimo rispettato le leggi capendo che la strada più sicura per arrivare ad un’economia turistica non era lo sfruttamento intensivo in metri cubi del territorio bensì l’investire sulle potenzialità paesaggistiche di Sciacca, beh, ecco che oggi il Piano Paesaggistico non farebbe poi così paura e, piuttosto, sarebbe accolto quale grande strumento di civiltà.

Dice bene l’architetto Calogero Segreto (durante Vesper di RMK): il paesaggio non va inteso quale territorio ma come l’insieme di storia e cultura. Indubbio, ma qui casca l’asino: la Sciacca contemporanea è, purtroppo, la risultante di una storia quarantennale che ha totalmente disatteso gli aspetti culturali che sottintendono il convivere civile ovvero la coscienza che la città e il suo territorio sono “paesaggio” di tutti. Questo status fa sì che il Piano Paesaggistico sia fine a se stesso, redatto su uno stato di fatto che non necessita esclusivamente di tutela bensì di risanamento, perché un dato di fatto è certo: tutti coloro i quali hanno un po’ di senso civico e di onestà intellettuale non possono negare che lo stato attuale del territorio saccense è frutto di un concorso di colpa assoluto inveratosi negli anni ’70 e ’80 tra politici, costruttori e proprietari terrieri, tutte figure che possiamo definire “speculatrici” a danno del “paesaggio”, e che hanno fatto di Sciacca una città assolutamente brutta, disordinata, piena di aree di risulta abbandonate, con aree edificate quali Foggia, San Giorgio, Renella, Lido sorte indiscriminatamente e arrogantemente poiché hanno impedito che il lungomare fosse “elemento paesaggistico” della città, dunque di tutti.

Credo che si debba prendere definitivamente atto che dobbiamo confrontarci con la durissima realtà di una città massacrata in cui ha dominato la “paesaggistica scorretta” e che dovrebbe fare il primo fondamentale passo per uscire dalla crisi e dall’immobilismo: rendersi conto che, prima di qualsiasi altro “piano di tutela”, a Sciacca sarebbe necessario un piano di risanamento puntuale, quasi chirurgico, ed è da qui che gli amministratori dovrebbero partire prendendo il toro per le corna senza aspettare PRG o Piano Paesaggistico ma intervenendo con azioni progettuali che ridiano dignità alla città oltre qualsivoglia mini intervento di abbellimento a mezzo di vasi di ceramica, fiori, panchine, etc., che sono sì apprezzabilissimi ma che non sono “paesaggistica”!

Sono interventi che equiparo alla teoria dell’ombelico sporco: non basta pittarsi il muso, profumarsi, cotonarsi i capelli e vestirsi alla moda se poi non ci si lava in profondità. Tant’è: il Piano Paesaggistico potrà magari fermare il degrado architettonico-urbano-paesaggistico ma di certo non ci restituirà bucoliche visioni della cittadina incastonata tra il mare ed il Monte Kronio, con il Mulino Cuore, la costa del Lido Salus, gli ulivi della Perriera, la suggestiva dinamica spaziale quadridimensionale dell’edificato del porto, le Mura di cinta libere dall’essere sovrastate ed inglobate in edifici a reddito, il costone di Cammordino bianco candido e non solcato da un flusso continuo di acque putride (di cui né Maigret, né Colombo, né Montalbano saprebbero risolvere il caso della provenienza), etc.

Si dirà che, quantomeno, si fermerà il degrado: vero e giusto, ma triste, tristissimo poiché significa che se non fosse arrivato il Piano Paesaggistico avremmo continuato a concepire solo ed esclusivamente porcherie denotando così un’assoluta mancanza di senso etico ed estetico. La paesaggistica insegna qualcosa di fondamentale agli architetti (i quali hanno il compito di spiegarlo e farlo comprendere a tutti, in primis a chi fa politica e amministra e che ha spesso deciso la pianificazione “guidando” la mano dei progettisti con in mano la matita): è perverso anchilosare la “crescita” di una città perché le sue strutture vitali non possono essere ibernate. Siamo noi tecnici, pianificatori, paesaggisti che dobbiamo essere in grado di fare capire che “crescita” non significa “quantità” bensì “qualità” e che, soprattutto, dobbiamo essere altrettanto capaci di gestire le “conflittualità” inevitabili che nascono tra “luogo” e suo “nuovo contesto”. Tutto ciò -per paradossale che sembri- significa che “l’ambiente non va salvaguardato ma reinventato con quotidiana tensione”: è, dunque, sul significato di “tensione” che ci si deve soffermare e approfondire.

“Tensione” che significa avere leale consapevolezza delle problematiche da affrontare e farlo con decisione, senza cali di concentrazione e senza compromissioni, consapevoli che la Natura può anche essere cattiva e non ha certo bisogno del nostro aiuto per scatenare l’inferno. Va da sé che per farlo va evitato l’equivoco che si genera confondendo “natura” con “paesaggio”, così come fa invece il prof. Giuseppe Bazan allorquando -nella lettera inviata al ”Corriere di Sciacca”- afferma che “…nella recente conferenza nazionale “La Natura d’Italia. Biodiversità e Aree protette: La Green Economy per il rilancio del Paese” […] è stata tracciata la rotta da seguire nelle politiche di sviluppo territoriale che punta proprio sulla conservazione e valorizzazione del capitale naturale nonché sul ruolo multifunzionale delle infrastrutture verdi e del paesaggio agricolo tradizionale.”

A parte l’inquietante rimarcare la “ presenza delle più alte cariche dello Stato, di Ministri …” (perdonatemi, ma i politici m’inquietano.), quella che dà il prof. Bazan sarebbe una notizia da prima pagina se non fosse che la questione della tutela del paesaggio è tema culturale che taglia trasversalmente almeno il secolo scorso: basti ricordare Le Corbusier che, nonostante sia dai neofiti negativamente identificato -erroneamente- quale padre della moderna città, quella che ha distrutto il paesaggio, ebbe sempre presente il valore dell’antichità e delle peculiarità paesaggistiche dei luoghi (si legga cosa ebbe a dire di Rio de Janeiro: “E’ folle che la gente, a milioni, che vive in questo luogo stupendo, non debba mai vederlo dalle sue case, dai posti in cui lavora, addensandosi invece nella solita giungla di asfalto e cemento, continuando a espandere la città sempre più all’interno, sempre più remota dalla baia meraviglioso” o di Bergamo: “Qui niente macchine.Qui la splendida città senza ruote”).

Il prof. Bazan non fa la corretta distinzione tra “natura” e “paesaggio” allorquando ammonisce a distinguere ciò che è “paesaggio reale” da ciò che è “paesaggio artificiale”, un errore da non fare perché sennò si fa di tutta l’erba un fascio arrivando alla conclusione che qualsiasi attività edilizia è irreversibilmente dannosa per il paesaggio. Ne scaturirebbe che il paesaggio toscano potrebbe fare a meno di San Gimignano o quello siciliano di paesi quali Sicli, insomma, che tutti i paesaggi del mondo sarebbero tali solo se non antropizzati o che, al massimo, ciò s’inveri attraverso casupole di campagna sparse qua e là.

Oggi progettare il “paesaggio” non significa creare nuovi giardini, inserire il cosiddetto “verde” o (nel nostro caso) preservare la macchia mediterranea. Progettare il “paesaggio” impone l’avere consapevolezza di quanto sono cambiati i presupposti per definire ciò che è “Paesaggistica”, che è oggi un nuovo paradigma che comprende natura, paesaggio e architettura. Così intesa, la Paesaggistica è il nuovo, fondamentale anello che si aggancia a quello della cosiddetta ”urbatettura” intesa, a sua volta, quale l’assoluta necessità di ricucire lo scollamento tra urbanistica ed architettura attuato tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del XX secolo, che tanti e irreparabili danni ha creato. Per rendere molto più chiaro il concetto, ecco come lo spiega Giuseppe Samonà : “l’Urbanistica si ferma a indirizzare traffici, anelli di circolazione, spazi verdi e lottizzazioni, dimenticando gli edifici, la casa.”

In sintesi, avvenne che l’urbanistica (dimentica dell’architettura) non poteva che creare case o edifici intesi esclusivamente quali volumi “alti, lunghi e profondi come prescritto dal regolamento, per cui l’architettura non è altro che un profilo, un fantasma…”. Dunque, in merito al Piano Paesaggistico secondo me il paradosso è che chiunque oggi ne parli, pro o contro che sia, può avere ragione: – manca concertazione ed ha lacune di analisi sin dalla partenza, vedasi cartografia datata al 2008 -(Massimiliano Trapani); – individua valori che vanno mantenuti – (Calogero Segreto); – manca lo studio del territorio – (Ignazio Bivona); – (tutela) il paesaggio tipico della costa meridionale della Sicilia, un “capitale naturale” della collettività che indirettamente si traduce in “valore economico” per tutti – (Giuseppe Basile); – chi ha investito in terreni edificabili non recupererà l’investimento fatto e, dunque, ne esce danneggiato – (Francesco Fiorino); Da ciò mi viene spontaneo prendere a prestito Alfio Caruso e la sua affermazione che in Sicilia “ciò che è non appare…; ciò che appare non è…”, concetto che traslato sulla situazione di Sciacca può tranquillamente farci affermare che lo scempio paesaggistico, evidente, deprimente e scandaloso, “è” ma “non appare” nel senso che facciamo finta che tutto sia ok e che Sciacca sia la più bella città della Terra; il Piano Paesaggistico che “appare” quale la mannaia definitiva sul nostro futuro economico “non è” tale poiché è semplicemente un civile strumento di tutela.

Peccato però che, stando le cose come stanno, sia strumento di tutela assolutamente: a) anacronistico, poiché calato in una realtà dove c’è ben poco da tutelare: si veda vincolo assoluto lungo via Lido…dove tutto è oramai costruito e dove i proprietari innalzano paratie stile “mose” di Venezia a protezione della propria casa dal fango che percola ogni volta che c’è un po’ di pioggia…; b) impreciso, perché vorrei capire cosa c’è da tutelare (livello 2) lungo il tratto della variante attualmente chiuso al traffico; c) approssimativo, perché, ad esempio, non si capisce come mai una piccola parte dell’area sottostante via Lido (quella sovrastante la parte finale dello Stazzone) sia “tutela 2” pur essendo certamente all’interno dei 200 metri di distanza dal mare e, soprattutto, crei una vera e propria chicane della linea virtuale che delimita il livello tutela 1 dal livello tutela 2; d) redatto sulla base d’immagini satellitari, così come dimostra l’avere reso “tutela 2” alcune piccolissime porzioni di Isabella poste al di sotto di Via Moro solo perché alcuni privati avevano pensato bene di creare pinete e/o verde privato, macchie che spiccano certamente dal satellite. Hanno vincolato la pineta all’interno di una proprietà di famiglia: mi sta anche bene perché significa che mio padre aveva fatto cosa buona piantumando il più possibile e noi non avevamo alcuna intenzione di abbattere alcun albero, però mai nessuno tra i 40 e più tecnici (tra firmatari e collaboratori al Piano) è venuto a chiederci di entrare nella proprietà per verificare mq del verde e specie da tutelare: dunque, come hanno fatto a decidere la tutela….se non dal satellite…? Insomma, da qualsiasi punto di vista la si osservi, la situazione è pirandelliana e non esiterei a denominare il Piano “Piano Paesaggistico Pascal” perché dopo essere stati troppo impegnati a farci gli affari nostri; dopo avere dilapidato il patrimonio paesaggistico; dopo avere creduto che bastasse il colpo di fortuna di un condono edilizio per cambiare identità; solo dopo tutto ciò e con l’arrivo del Piano Paesaggistico, fredda realtà burocratica e per nulla plasmata sulla realtà delle cose, abbiamo capito che non avendo un’identità siamo condannati a vivere nell’aleatorio, status che si esplica in una realtà del costruito e dell’autorizzato costruendo che non può corrispondere ad alcuno dei criteri su cui il Piano Paesaggistico si basa, un Piano che rischia di non essere almeno “verosimile” anche per alcune indubbie incongruenze che porta in sé.

Mettendo da parte l’ironia, in realtà, ciò che oggi ci manca è la capacità di essere contemporanei alle problematiche che ci pone la “paesaggistica” e ciò nonostante già dagli anni ’70 del XX secolo il rapporto tra uomo “moderno” e natura fosse tema fondativo nel dibattito filosofico e sociologico. Una sola piccolissima nota sulla questione “turismo”: prima di prendercela con il Piano Paesaggistico (che – sia chiaro- ha comunque grandissimi limiti che vanno affrontati estirpando le criticità che ci metterebbero definitivamente in ginocchio) dovremmo farlo con chi decise non solo di non potenziare ma addirittura di tagliare le linee ferroviarie; con chi non si batte per l’autostrada che colleghi Castelvetrano-Sciacca-Ribera-Agrigento ma che organizza l’inaugurazione in pompa magna di un brevissimo tratto di banalissima strada (vedasi svincolo Ospedale) quasi come se fossimo stati i privilegiati cittadini a disporre per primi al mondo di un sottopasso…; con chi non si batte per togliere il monopolio dei collegamenti autobus.

Insomma, dovremmo prendercela con ni stessi perché non siamo mai stati capaci di reagire alle imposizioni politiche e, anzi, spesso le abbiamo avallate votando e rivotando il “santino” di turno (ogni anno, il 4 gennaio, ci sentiamo fieri di essere concittadini di Accursio Miraglia, ma dovremmo chiederci se ne abbiamo mai realmente difeso ed onorato gli insegnamenti e la memoria).

Concludo ribadendo che Sciacca dispone d’innumerevoli intelligenze culturali capaci di avviare un vero percorso di “risanamento paesaggistico” che sia elemento di emancipazione dallo status quo e tutto ciò al di fuori delle cosiddette “questioni politiche” (che, ammantate di filantropismo e dedizione assoluta verso il cittadino, invero ne sono il boia; il più è che non essendoci mai resi conto che abbiamo una testa pensante, anche se ce la tagliano non ne sentiamo la mancanza…).

Il Sindaco non dovrebbe fare altro che chiamare a raccolta tutti i saccensi che intendano dare un contributo non settoriale bensì eterogeneo al risanamento della città e concertare con loro la disamina delle criticità progettandone poi la soluzione. La mia solfa, in fondo, è sempre la stessa: la “modernità” è la trasformazione della crisi in valore.

Tutto il resto è “ammuttari û fumu câ stanga”.

Grazie e un caro saluto Paolo GL Ferrara

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