COMMEMORATO MONS. NICOLO’ LICATA, PRETE, GIORNALISTA E TRIBUNO DEL POPOLO. FU ARCIPRETE A SCIACCA E A RIBERA (fotogallery)

Si è svolta ieri pomeriggio la solenne commemorazione dell’immensa statura di prete, politico, giornalista e benefattore, con la scopertura della lapide del sepolcro dedicato a monsignor Nicolò Licata, arciprete a Ribera e a Sciacca. Lo scorso 11 aprile, dopo 72 anni dalla morte, monsignor Nicolò Licata è stato traslato dal cimitero del centro crispino alla chiesa Madre di Ribera. La commemorazione è stata organizzata dall’Ordine Equestre Santo Sepolcro Gerusalemme, luogotenenza  per l’Italia-Sicilia, Sezione di Palermo, Delegazione di Agrigento e dalla Comunità ecclesiale della Chiesa Madre di Ribera.

Alle ore 16:30 si è dato il via alla cerimonia con la scopertura della lapide a cura del cardinale Francesco Montenegro e degli arcipreti Giuseppe Maniscalco e Carmelo Lo Bue. Poi il ricordo di monsignor Licata a cura dello storico Filippo Chiappisi. Dunque, dopo 72 anni, mons. Licata riposa nel luogo sacro che lui ha tanto amato e per il quale ha tanto dato. L’iter è stato lungo, ma alla fine il sogno si è concretizzato. Un sogno voluto dal Circolo Culturale di Sciacca “Mons. Licata”, e carezzato fortemente dal dottor Filippo Chiappisi. Un contributo significativo è stato messo a disposizione dalla cugina Pia Di Leo Furnari, e dai parenti dell’arciprete Licata, per realizzare l’idea di traslare l’arciprete Licata dal cimitero di Ribera all’interno della chiesa Madre.

Alla cerimonia erano presenti le autorità militari, il sindaco di Ribera Carmelo Pace e il sindaco di Sciacca Francesca Valenti, oltre ai presidenti dei Consigli comunali di Ribera.

Per ricordare l’incessante attività di monsignor Nicolò Licata, riportiamo un articolo del nostro direttore Filippo Cardinale, pubblicato su La Sicilia nel 2002.

Nicolò Licata nacque a Sciacca il 20 aprile del 1870. Operò nel sociale nel periodo duro della miseria che abbondava nella parte occidentale della provincia di Agrigento. Visse un periodo, dal 1870 al 1946, che vide l’unificazione d’Italia, la prima guerra mondiale, il ventennio fascista, il secondo grande conflitto mondiale. Per Sciacca e Ribera fu il faro, l’uomo mandato da Dio per riscattare – come scrivono Raimondo e Gerlando Lentini, autori del libro biografico su mons. Licata “dalla miseria e risollevare dal senso di inferiorità e di impotenza i marinai di Sciacca e di Porto Empedocle, i zolfatai di Aragona, Racalmuto e Comitini, i contadini di Sciacca, di Ribera, di Calamonaci e di Cianciana, gli operaie gli artigiani» di tutti i paesi del lembo occidentale della provincia agrigentina.

La sua missione di sacerdote fu improntata come guida di una classe di deboli, oppressa da miserie e sofferenze inaudite che segnavano le condizioni sociali della Sicilia di quel tempo. Era il tempo in cui le masse lavoratrici dei campi e delle officine facevano ingresso nelle pagine della storia, sia come vittime di un sistema politico-sociale disumano, sia come promotori di un mondo nuovo, più giusto. La questione sociale degli operai e dei contadini affiorava in tutta la sua gravità. 

Concepì la politica solo come servizio per la collettività. Vi partecipò diretta-mente nel 1901 con le elezioni comunali di Sciacca. Eletto consigliere, nel suo primo intervento nella seduta per l’elezione del sindaco chiarì esplicitamente la sua posizione: «Non sono un calatesta automatico, né un oppositore sistematico. Pertanto combatterò il male ovunque si annidi, appoggerò il bene da qualunque parte venga, sia dalla maggioranza nella quale conto carissimi amici, sia all’opposizione, nella quale ammiro nobili aspirazioni».

La sintesi dell’azione politica di padre Licata è chiarissima nelle sue parole: «nutro un programma sociale e politico nel quale il miglioramento materiale dei lavoratori si accoppi con quello morale».

Su questo filone operò con segni tangibili fino ad essere riconosciuto come «prete, giornalista e tribuno del popolo». Assunse la veste di giornalista perché convinto che non bastava parlare ed agire, ma era indispensabile informare e formare il popolo attraverso la stampa. Così fondo il periodico «Il Lavoratore», la cui prima uscita proclamava di essere «l’interprete fedele e affettuoso dei lavoratori della terra e del mare, e principalmente di quei fratelli nostri i quali, in terre straniere, sudano e piangono per guadagnarsi un tozzo di pane che la madre patria ha loro negato».

Le pagine de «Il Lavoratore» costituirono una preziosa fonte di sapere per la gente, ma rappresentarono anche una formidabile eco che risaltava i disagi sociali in direzione di una classe politica sempre più impermeabile alle istanze dei lavoratori. Riuscì a coniugare egregiamente la veste di religioso con il ruolo di pastore e portavoce di un popolo sofferente, soffocato dalla miseria causata per lo più dalla presenza dei latifondi e stretto dalla morsa degli usurai. Un prete, un uomo di Dio, che non ebbe paura del potere e amava dire che «uno dei difetti di carattere per cui noi siciliani non sappiamo mettere in efficienza i nostri valori è la mancanza di continuità nelle iniziative, di persistenza nel lavoro per il raggiungimento di un ideale. Appena ci troviamo soli o incontriamo il primo ostacolo nella via, che di lontano abbiamo vagheggiato luminosa e bella, ci sentiamo cascare con il cuore le braccia, ci abbattiamo per via e brontoliamo contro la tristezza dei tempi, ritorniamo sui nostri passi, ci ritiriamo nel nostro guscio. Eppure bisogna battere la breccia affinché si spezzi, bisogna soffiare sul fuoco perché il ferro si scaldi».

Non era facile il tessuto sociale in cui monsignor Licata viveva e operava. Uno degli obiettivi più duri, difficili, ma esaltanti sicuramente, fu per monsignor Licata la lotta contro il latifondo. «Il Latifondo» è il titolo dell’editoriale del Lavoratore del 30 giugno 1911. Ne riportiamo il contenuto citato nel libro biografico di Nicolò Licata, scritto da Gerlando e Raimondo Lentini. «Veramente il latifondo è una palla di piombo legata ai piedi della Sicilia. Portiamo un esempio che cade sotto i nostri occhi: Ribera. È una graziosa cittadina che si avvia a diventare uno dei migliori e importanti comuni della Provincia. Qual è intanto uno dei principali ostacoli al suo sviluppo? Il latifondo, che lo serra per due terzi in una morsa di ferro sino alle case del paese. Per il latifondo noi abbiamo in Ribera un ceto agricolo povero in canna. Di conseguenza il maggiore contingente degli emigrati riberesi lo dà il ceto agricolo. Con le sue meravigliose terre, in gran parte irrigate, la produzione agraria di Ribera darebbe il triplo senza il latifondo. Aggiungiamo ancora che Ribera, quantunque ben messa, non ha aria buona e fresca, non già per i fiumi che sono lontani, ma per la mancanza di alberi attorno al paese. Guardatelo, appena gli alberi del fondo Pasciuta a mezzogiorno e poi, tutto il resto, è deserto».

La sintesi dell’editoriale, a firma di monsignor Licata, descrive bene quale fosse la situazione riberese di quel periodo. E  gli anni successivi, grazie all’operato del prete e di suo zio Franco Di Leo e agli strumenti sociali che essi misero in essere, rappresentarono il capovolgimento di quella situazione quasi medievale in cui Ribera versava. Nasce da qui la lunga svolta del popolo riberese che lo vede assurgere fino ai giorni nostri protagonista dell’economia agricola della provincia di Agrigento. Pilastri di tale capovolgimento furono, oltre alla tenacia del prete illuminato, due strutture da lui fondate in colla-borazione con lo zio Franco Di Leo: la Cassa Rurale di Ribera, poi divenuta Banca Popolare di Ribera, e la Cooperativa Agricola. E nel gennaio del 1914, proprio dalla Cassa Rurale partivano due telegrammi indirizzati rispettivamente al presidente del Consiglio dei Ministri Giolitti e al Ministro dell’Agricoltura Nitti con le testuali parole il primo: «Agricoltori Cassa Rurale Ribera sperano non rivoluzione sociale ma provvedimenti civili invoca-no legge trasformazione la-tifondo». Mentre il secondo telegramma recitava: «Agricoltori Cassa Rurale Ribera memori ed orgogliosi aver sostenuto candidatura Vostra Eccellenza attendono fiduciosi legge trasformazione latifondo rispondente bisogni nostri».

Oltre le parole ci furono i fatti. Quelli concreti per i quali la gente di Ribera dovrebbe tenere sempre vivo il ricordo del Licata. La Cooperativa Agricola, presidente Franco Di Leo, con la garanzia della Banca Popolare di Ribera, presieduta da monsignor Licata, acquistò 1246 ettari di feudi al prezzo complessivo di £.3.820.000 e per un totale di 352 quote. Le quote risultavano in media di ettari 3,5 ciascuna e il prezzo medio di acquisto per ettaro pari a £.3.066. I fondi furono acquistati con pagamento di 1/5 in contanti e il rimanente in annualità costanti per diciotto anni. 

Scrive Franco Di Leo nelle memorie inedite: «La Banca Popolare approntò le somme per i primi pagamenti e, nello spazio di pochi mesi, i feudi diventarono poderi. Il contadino senza un soldo, ma con l’anelito di diventare piccolo proprietario, venne aiutato. A molti si anticipò anche il costo della cambiale, che serviva al prestito delle 1000 lire di anticipo necessario all’acquisto di ogni salma di terra». Si realizzava così quel sogno da tutti ritenuto impossibile: i feudi del Duca di Bivona (Strasatto, Cammei Inferiore, Aggregati Belmonte, Corvo, Giardino di Poggio Diana) venivano trasformati in tante piccole proprietà in mano ai contadini.

Scriveva nelle memorie lo zio dell’arciprete Licata, Franco Di Leo: «Chi visse le vicende di quei giorni sa le minacce, le critiche, le parole scoraggianti, la tempesta degli interessi che si avventarono rabbiosamente sugli esponenti della Cooperativa e della Banca Popolare. Ma essi impavidi resistettero all’urto e passarono all’azione firmando l’atto di acquisto dei feudi, i quali rapidamente furono lottizzati ed assegnati ai contadini».

Mancava all’appello ancora «il miglior feudo di Ribera» diceva l’arciprete. Era quello di San Pietro, oggi Borgo Bonsignore, ove insiste, tra l’altro, una delle spiagge più belle e incontaminate della Sicilia. Era questo un feudo appartenente agli Ospedali Riuniti di Sciacca ed era amministrato dalla Congregazione di carità della città termale. Scrivono i fratelli Lentini: «Armato della fede in Dio e di un amore verso i lavoratori agli inizi del 1910 scrisse una lettera agli Amministratori del feudo: «Noi sottoscritti amministratori della Cassa Rurale di Ribera, che nell’anno in corso si trasformerà in Società Agraria a solidarietà illimitata denominata «La Bonifica», allo scopo esclusivamente dell’affitto dei latifondi a lunga scadenza per bonificarli, domandiamo in affitto per venti anni il feudo di San Pietro. I sottoscrittori si obbligano di trasformare la cultura del feudo piantando vigneti, mandorleti ed altri alberi secondo la convenienza e qualità del terreno, riconsegnando alla scadenza del fitto senza nessun compenso.

La Congregazione si deve obbligare a fabbricare le case coloniche che saranno necessarie». Tale proposta non fu accettata dalla Congregazione di Carità. E l’arciprete non si perdette d’animo. Anzi. Trovandosi un giorno su quei terreni disse ai contadini: «State sicuri, un giorno questi terreni saranno i vostri».

Nel 1926 avanzava la normalizzazione fascista e l’arciprete Licata dovette operare esclusivamente nel suo ambito religioso. Ma le sue creature, la Cooperativa e la Banca, avevano ormai radici profonde. Nel giro di pochissimo tempo, La Bonifica (la ex cooperativa fu trasformata in società di mutuo soccorso assumendo tale denominazione), presieduta dallo zio dell’arciprete, Franco Di Leo, acquistava quei 500 ettari di feudo San Pietro a beneficio dei soci. Cadeva l’ultimo laccio che stringeva i contadini riberesi nella morsa della miseria. Nel 1943 monsignor Licata, per problemi di salute, si dimise da arciprete di Sciacca. Il 16 maggio 1946, il Vescovo di Agrigento, mons. Giovanni Battista Peruzzo, gli fece visita. Qualche ora dopo monsignor Licata saliva al Cielo. Dopo i funerali a Sciacca, la salma fu portata a Ribera, come era suo desiderio, per essere sepolta nel cimitero della stessa cittadina.