Cuffaro spiato in casa e al bar: la paranoia non lo ha salvato
Microspie e telecamere ovunque: l’ex governatore siciliano si credeva al sicuro, ma i carabinieri del Ros ascoltavano tutto, anche nel suo “ufficio segreto” al bar
Dalla lettura dell’ordinanza della Procura, continuano ad emergere dettagli sulle indagini che hanno coinvolto l’ex presidente della Regione e numerose altre persone tra politici, dirigenti e funzionari. Totò Cuffaro si sentiva al sicuro nel suo appartamento di via Scaduto, a Palermo. «A casa mia cose non me ne nascondono», diceva con convinzione, certo che quelle mura fossero impermeabili a occhi e orecchie indiscrete. Era lì che riceveva politici, imprenditori e fedelissimi, adottando rituali precisi: telefoni spenti, conversazioni riservate, precauzioni maniacali. Ma tutto era già compromesso. I carabinieri del Ros avevano trasformato la sua roccaforte in una sorta di sala di registrazione. Microspie piazzate nello studio, telecamere nascoste nell’androne del palazzo: ogni parola, ogni incontro, ogni gesto era monitorato. Anche il bar Costa, in via D’Annunzio, considerato da Cuffaro un rifugio pubblico e sicuro, era sotto controllo. Lì, come a casa, si spegnevano i cellulari. «Carmè, posa il telefono. Vai a metterlo là dentro», si può leggere nell’ordinanza. Lo ordinava al deputato regionale Carmelo Pace, suo uomo di fiducia, indicando un luogo lontano dalla zona di conversazione. La sua ossessione per la riservatezza si è rivelata inutile. Ogni precauzione, ogni strategia, ogni paranoia è stata aggirata. Cuffaro parlava, e i militari ascoltavano. Silenziosamente, ma inesorabilmente.





