È stato il quotidiano “La Repubblica” a pubblicare un reportage su una delle numerose scoperte fatte dagli investigatori del Ros e della procura della Repubblica. Il procuratore capo Maurizio De Lucia, l’aggiunto Paolo Guido e i sostituti Gianluca De Leo e Pierangelo Padova, grazie alle ricostruzioni dei Ros e dei tecnici informatici dei carabinieri hanno scoperto che il capomafia rimasto latitante per un trentennio aveva scelto un altro alias. La magistratura prova a capire se questi profili abbiano rappresentato chiavi d’accesso per comunicare col boss durante la sua latitanza, se tra le tante complicità già accertate ce ne siano state anche all’interno dei social network.
Francesco Averna è il nome con il quale Messina Denaro si presentò al tecnico che era stato chiamato da Andrea Bonafede per aggiustargli la lavastoviglie. “Mio cugino ha bisogno di una riparazione”, gli disse colui che prestò la sua identità al boss e che per questo è già stato condannato a 6 anni e 8 mesi per favoreggiamento. Pena che per i magistrati palermitani è troppo lieve, ragione per la quale hanno già presentato ricorso in corte d’appello.
I Ros hanno ricostruito i movimenti del superboss, tra Campobello di Mazara, dove è stato accertato che viveva e si relazionava indisturbato, e la città di Palermo. Nel capoluogo si recava regolarmente con Andrea Bonafede, frequentava negozi e il centro storico, andava a fare la spesa, andava dal tabaccaio. Cose normali di un uomo normale. Fino alle visite alla Maddalena per curare il suo tumore. La sensazione prevalente dei magistrati è che le connivenze e le complicità di Messina Denaro siano più di quelle che sono state accertate. Non si può rimanere latitanti per trent’anni senza tutti gli aiuti di cui Messina Denaro ha goduto. E non è che siccome lui è morto allora la questione può considerarsi conclusa.