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“30 anni senza giustizia”. Lillo Mannino racconta il suo calvario finito solo da qualche giorno

SCIACCA.  “Trent’anni senza giustizia” è il titolo di una lunga intervista di Annalisa Chirico, sul Foglio del 23 dicembre, a Calogero Mannino. Dal punti di vista temporale, trent’anni senza giustizia sono 10,100,1000 volte infinitamente più pesanti di Cent’anni di solitudine, , il capolavoro letterario (1967) del Premio Nobel colombiano Gabriel García Márquez. Lo sono perché un percorso giudiziario che dura tre decenni e si conclude con ripetute assoluzioni colpiscono l’essere umano nel suo valore primario, nel suo bene essenziale. Trent’anni di processi alla ricerca di una condanna che la pubblica accusa ha tentato di edificare su fondamenta che la parte terza del processo, quella giudicante, ha sempre demolito per la loro precarietà, per la loro infondatezza. Un processo durato molto di più del periodo più tormentato d’Italia, quello di mussoliniana memoria. E’ la storia che mortifica anche il più nero periodo medievale poiché nella società moderna si è trascinato un uomo dai suoi 52 anni fino al compimento del suo 80esimo compleanno in un vortice di tortura psicologica, di distruzione fisica e morale.

Oggi, riportiamo l’intervista dell’ottima Annalisa Chirico sulla nostra testata giornalistica, con il consenso di Mannino.

Filippo Cardinale

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Dal Foglio del 23 dicembre 2020

TRENT’ANNI SENZA GIUSTIZIA, di Annalisa Chirico

“Avverto la stanchezza, non il sollievo”, Calogero Mannino s’intrattiene con il Foglio in un lungo colloquio che ripercorre i trent’anni trascorsi da Grande Imputato in un processo, anzi in più processi, divenuti episodi di un unico romanzo con lieto fine. Lieto, si fa per dire. Il primo capitolo, ambientato nel 1991, si apre con le dichiarazioni eclatanti del pentito Spatola, segue il capitolo mafioso, poi quello dedicato alla Tangentopoli sicula fino al gran finale con la famigerata Trattativa fra pezzi dello stato e di Cosa nostra.

L’assoluzione definitiva, giunta pochi giorni or sono, non è fonte di gioia ma constatazione dell’ingiustizia subita. “Il presidente dell’Ente perseguitati ha ben poco di cui rallegrarsi – l’ex ministro democristiano parla di sé in terza persona – Che vuole che le dica? Se mi guardo attorno, tutto è alle mie spalle, davanti a me c’è solo la mia famiglia, l’affetto di mio figlio e dei nipoti che, a causa del coronavirus, non posso vedere quanto vorrei”.

Ma torniamo al processo, anzi ai processi: la Corte di cassazione ha messo la parola fine al processo stralcio sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia. I supremi giudici della Sesta sezione penale hanno dichiarato inammissibile il ricorso proposto dai pm di Palermo contro il proscioglimento di Mannino emesso dalla Corte di appello il 22 luglio 2019. Lei, onorevole Mannino, è stato accusato di minaccia a corpo politico dello stato, e poi assolto in primo e in secondo grado.

“Le vicende giudiziarie, che mi hanno travolto in questi trent’anni, sono costruite tutte su un’unica trama accusatoria falsa al punto di essere puntualmente smentita in giudizio. Dal ’91 a oggi, ho accumulato sempre e soltanto sentenze di assoluzione. Com’è possibile pensare che una trama accusatoria unica sia tenuta in piedi per trent’anni a opera di un gruppetto di magistrati della procura della Repubblica di Palermo? Com’è possibile non ritenere che questa trama abbia risposto a finalità e interessi diversi? Anche Cartesio suggerisce di distinguere ratio e causa”.

Lei allude a obiettivi extragiudiziari?

“Io vedo una finalità di vendetta della mafia e di Massimo Ciancimino; vedo un tentativo di depistaggio di indagini ben più importanti; vedo, in ultimo, una finalità politica volta a delegittimare la classe dirigente della Dc e per dichiarare conclusa la Prima Repubblica”.

Il fulcro delle inchieste ruota attorno a Palermo: il debutto coincide con l’arrivo di Giancarlo Caselli alla guida della procura, il gran finale celebra l’ascesa mediatica di Antonio Ingroia, all’epoca procuratore aggiunto che poi, ancor prima dell’apertura del dibattimento, si trasferisce in Guatemala e infine si candida, senza fortuna, a presidente del Consiglio.

“Negli anni si sono alternati diversi pm seppure in una sostanziale continuità. Vittorio Teresi è il pubblico ministero presente in tutti i processi che ho subìto, diversi compagni lo hanno affiancato, da ultimo Antonino Di Matteo; sempre con Teresi lo stesso Ingroia è divenuto una specie di super autorità intellettuale”.

Ingroia, oggi avvocato, ha dichiarato clic la sua vicenda giudiziaria sarebbe stata “condizionata” dal giudizio negativo sull’attendibilità di Ciancimino (di cui Ingroia è stato difensore) e che nel giudizio abbreviato i giudici non hanno avuto la possibilità di sentire direttamente le fonti di prova.

“Falso: i magistrati hanno esaminato le fonti di prova, prodotte anzitutto su richiesta dei sostituti procuratori. Faccio notare che anche il signor Ingroia è passato per un rito abbreviato ed è stato condannato. Non è l’unico magistrato che abbia ricevuto una condanna in un procedimento abbreviato. Io sono stato sempre assolto. Se un giorno la procura generale della Cassazione e quella di Caltanissetta si decidessero ad aprire, su Palermo, una indagine seria su condotte, comportamenti e linee di politica giudiziaria, si arriverebbe finalmente a un punto di svolta”.

Tuttavia, la sua assoluzione nel processo stralcio sulla Trattativa fa a pugni con la condanna in primo grado, nel filone principale, del generale dei carabinieri Mario Mori e di altri uomini dello stato. E’ un’aporia giudiziaria: il motore politico del patto scellerato e presunto, siglato a cavallo delle stragi di mafia del ’92, è scagionato per sempre, mentre chi la Trattativa l’avrebbe portata avanti viene condannato.

“Che la Trattativa potesse avere come “motore” Mannino è ridicolo. In questa Trattativa si sono viste le ombre di due presidenti della Repubblica e di due ministri dell’Interno. E allora, secondo qualcuno, l’artefice del patto sarebbe Mannino che temeva di essere ucciso? Se intendono condannare Mori in quanto avrebbe condotto una Trattativa su impulso di Mannino, non andranno da nessuna parte. Consiglierei piuttosto di accettare la difesa del generale che ha sempre sostenuto di avere agito per obiettivi di polizia giudiziaria”.

Il generale Mori ha ricevuto una condanna a dodici anni di carcere mentre i pezzi dello stato, che avrebbero avviato il motore della Trattativa, sono rimasti senza nome.

“Non intendo assumere le difese del generale che, a mio giudizio, dovrebbe chiarire i suoi rapporti con Caselli. Nell’agosto del 1994 il pentito Pennino, nel giro di due settimane, viene fatto rientrare dalla Croazia e condotto a Milano dove fornisce dichiarazioni utili a motivare l’ordinanza di custodia cautelare a me indirizzata. I Ros guidati da Mori consegnano al procuratore capo Caselli un pentito farlocco, il “Buscetta della politica palermitana”, e io finisco in carcere con l’accusa di associazione di stampo mafioso”.

Lei sconta nove mesi al 41bis all’Ucciardone, la prima ora d’aria dopo 37 giorni di isolamento. Poi viene assolto.

“Dietro le sbarre ho perso la salute. Mi sono ammalato di carcinoma alla vescica e alla prostata. Ma non intendo parlare di questo adesso che la mia parabola giudiziaria si è conclusa. Il pietismo non mi si addice”.

Nel ’97 il Foglio pubblica gli stralci della lettera inviata da Pennino alla Commissione centrale di protezione con la lista dettagliata dei suoi debiti e crediti, chiedendo alo stato tre miliardi di lire. Nello stesso anno si rincorre la notizia del “capriccio di Pennino”, la Ferrari che il pentito vuole comprarsi di tasca propria; per accontentano senza violare la copertura al ministero intestano l’auto a un impiegato.

“Non era certo l’unico pentito a ricevere soldi dallo stato -prosegue Mannino – Non sempre però ciò che dicevano i pentiti era ritenuto degno di considerazione. Quando un mafioso decide di parlare nel corso di un colloquio con il pm, la collaborazione prevede sempre una contropartita. Le dichiarazioni di Pennino sono prese per oro colato, quelle di Giovanni Brusca che riferisce di un incontro con Luciano Violante nel ’91 sull’aereo Palermo-Roma, vengono giustamente respinte da tre procuratori per manifesta infondatezza”.

A proposito di pentiti, il capitolo numero uno del suo romanzo giudiziario si apre con le dichiarazioni di Rosario Spatola al procuratore di Trapani Francesco Taurisano. Secondo il pentito, lei nell’estate del 1981 si era recato nel trapanese per ringraziare il boss Natale L’Ala per i voti procacciati al suo candidato.

“Da ministro offrii le mie dimissioni al presidente del Consiglio Andreotti e al capo dello stato Cossiga, entrambi le respinsero con fermezza. Paolo Borsellino, procuratore a Marsala, saltò sulla sedia perché Spatola era una sua vecchia conoscenza, s’insospettì e chiese la trasmissione degli atti, per competenza, al suo ufficio. Così scoprimmo che i verbali di interrogatorio con il sostituto procuratore di Trapani erano scomparsi, le accuse di Spatola non trovavano riscontro. La vicenda si chiuse con un’archiviazione. Il 9 settembre dello stesso anno, 1991, sulla Stampa, diretta all’epoca da Marcello Sorgi, Giovanni Falcone firmò un articolo dal titolo “Brutta aria” in cui esprimeva “grande amarezza per l’approssimazione con la quale, dopo tanto tempo e tanti sforzi spesi per far riconoscere i connotati dell’organizzazione mafiosa, si finisce col mescolare nel calderone di Cosa nostra tutto ciò che può assomigliargli. E per il modo in cui, se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del tuo partito, che invece risulterebbe suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso”.

Falcone prendeva le difese di Borsellino e, indirettamente, anche le sue.

“Quell’articolo mette in guardia dai rischi connessi alla ‘gestione’ dei collaboratori di giustizia che possono rivelarsi una trappola in una partita inquinata da interessi diversi dall’accertamento della verità. Falcone aveva già avuto a che fare nel 1989, nel corso del maxiprocesso, con il finto pentito Giuseppe Pellegriti che puntava il dito contro l’europarlamentare della De Salvo Lima quale mandante degli omicidi di Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Accuse prive di riscontro”.

Nella sua vicenda non mancano i tentativi di depistaggio tra “corvi” anonimi su cui non si è mai fatta luce.

“All’indomani della strage di Capaci viene portato all’attenzione nazionale il primo documento anonimo del ‘corvo’ che muove un attacco durissimo alla De e ai suoi massimi esponenti, nel mio caso l’accusa è di avere incontrato addirittura Totò Rima. Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, vuole vederci più chiaro ma, pochi mesi dopo, c’è la strage di via D’Amelio. Con l’arrivo di Caselli, la procura non si dà cura di ricercare l’autore del documento che sembra piuttosto un mezzo di depistaggio e disinformazione di matrice mafiosa. Neanche Teresi e Ingroia hanno voluto approfondire. Continuo a pensare che, se Borsellino non fosse stato ammazzato, la storia sarebbe andata diversamente e io non avrei subito questi processi”.

Nei primi anni Novanta le accuse contro Andreotti, da una parte, e l’inchiesta Mani pulite, dall’altra, hanno l’effetto di decapitare due partiti, De e Psi.

“L’arco giudiziario Milano-Palermo ha fatto fuori un’intera classe dirigente risparmiando solo i comunisti. Sono i casi della storia: ci sono stati quelli “salvati” e pure quelli “miracolati”. Tali azioni giudiziarie hanno avuto una finalità politica, quantomeno in virtù di una convergenza di interessi: la mafia ha perfezionato i propri attacchi mentre ai comunisti il colpo di stato non è riuscito a causa dell’arrivo, imprevisto, di Silvio Berlusconi”.

A completamento del suo romanzo articolato, come si è detto, in plurimi capitoli, lei è stato indagato anche nell’ambito di Tangentopoli.

“Ma non sono mai stato imputato. Venendo dalla Sicilia dove nel 1980 erano stati ammazzati, in gennaio, un presidente di regione, Piersanti Mattarella, e in estate il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa, ero ben consapevole clic la peculiare situazione regionale avrebbe presentato un problema di ampiezza tragica, anzi shakespeariana. Quando divento ministro della Marina mercantile nel 1981, decido di attenermi rigorosamente a una linea precisa: nessun contatto con imprenditori, nessun contributo per la campagna elettorale. Era l’unico modo per tenere tutti distanti da me. Parafrasando Virgilio, scelgo di essere onesto per difesa se non per vocazione. Da ministro dell’Agricoltura nel 1982, ho avuto rapporti ravvicinati con Raul Gardini ma, quando scoppia il caso Enimont e il cognato di Gardini mostra ai magistrati la contabilità, il mio nome non compare. C’è invece quello di Claudio Martelli”.

Nella Tangentopoli sicula invece lei viene tirato in ballo dalle accuse di Filippo Salamone, imprenditore agrigentino arrestato per mafia.

“Non c’entravo niente, infatti fui assolto anche allora, in primo e in secondo grado. Un presidente del tribunale, peraltro comunista, di Magistratura democratica, interrogò il tesoriere della Dc, Severino Citaristi, il quale spiegò in aula che si, Salamone aveva finanziato il partito ma io non avevo mai svolto alcun ruolo. Sono stato l’unico assolto nel processo Tangentopoli a Palermo. La procura generale, guidata allora da Caselli assurto al ruolo di gran direttore d’orchestra, ritenne di non presentare neppure ricorso in Cassazione”.

Con una catena di assoluzioni lunga tre decenni, lei potrebbe mostrare un filo di sollievo.

“Gliel’ho detto: sono stanco e ho esaurito le parole”.

 

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